MEDICINA ETRUSCA

 

Sarebbe ingiusto parlare -per un popolo come l'etrusco che a torto molti considerano "misterioso"- di medicina primitiva, rappresentata esclusivamente da un insieme di pratiche magiche e religiose di assai dubbia efficacia.

Anzi, gli Etruschi (la cui civiltà nota si estende tra il IX e il I secolo a.C.) erano molto rinomati nel mondo antico per la loro grande capacità di sfruttare le piante e le acque ai fini della terapia, di curare le ferite, di preparare protesi dentali, di controllare l'ambiente.

Oltre alle numerosae citazioni degli Autori classici, una buona fonte di notizie in merito alla loro medicina è offerta dalle raffigurazioni dei reperti archeologici, specialmente artistici e funerari, molte delle quali testimoniano la particolare perizia degli Etruschi nella preparazione dei medicamenti, profondi conoscitori com'erano delle piante medicinali. Impiegavano ad esempio la scommonea (contro l'itterizia), il ricino (purgativo), il mirto (astringente nei disturbi gastrointestinali), la felce maschio, l'aglio e la cipolla (contro i parassiti intestinali), l'artemisia maritima, il coriandro e il timiano (contro gli ascaridi in particolare), la camomilla (come calmante).

Verosimilmente gli Etruschi conoscevano anche l'uso della limatura di ferro e dell'ossido di ferro in varie malattie. Impiegavano inoltre il cavolo e il vino contro la malaria, forse a simboleggiare la necessità di condurre una vita gioconda e di seguire un'alimentazione sana per preservarsi dal male. Altre misure utilizzate contro la malaria consistevano nell'accendere grandi fuochi in campagna per purificare l'aria, nel bere decotti di varie piante, nell'assumere erbe odorose di essenze di ginepro e di rosmarino tramite suffumigi, e nell'indossare indumenti di lana e speciali manicotti.

Oltre agli infusi e ai decotti, essi prescrivevano anche cataplasmi e unguenti medicinali formulati in composizioni segrete.

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Gli Etruschi furono anche profondi conoscitori delle acque termali, che impiegavano largamente nella cura di molte malattie. Secondo la leggenda Ercole, per dimostrare la propria forza, infisse una lunga asta di ferro nel terreno: quando la estrasse, dal terreno sgorgò una ricca sorgente, la prima delle numerose altre che abbondano ancor oggi nel territorio dell'Etruria. Ad esse gli Etruschi non solo ascrissero proprietà magiche, ma riconobbero virtù terapeutiche. Chianciano, Montecatini, S. Giuliano...già tremila anni fa erano frequentate da persone che vi cercavano beneficio per la propria salute. E ciascuna fonte -proprio come oggi- aveva la sua specifica indicazione terapeutica.

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Ma forse più di ogni popolo dell'antichità gli Etruschi si distinsero per la loro perizia in odontoiatria. Lo dimostrano le numerose e ingegnose protesi dentarie ritrovate negli scavi e nelle sepolture, dalle quali traspare una perizia tecnica davvero non comune.

Si tratta il più delle volte di protesi che per la loro precisione, funzionalità e resistenza hanno destato l'ammirazione dei dentisti odierni, e inducono a considerazioni al di là della medicina come tale, implicando problemi di ordine tecnico, funzionale, estetico.

Gli Etruschi erano del resto abilissimi nella lavorazione dei metalli, e non solo del ferro, del bronzo e del rame, ma anche dell'oro, dove eccelsero nella delicatissima tecnica della "granulazione". Quest'arte sopraffina l'applicarono anche alla preparazione di protesi dentarie, le quali assumono pertanto non di rado il carattere di vere e proprie "opere d'arte". Coloro che le costruirono misero in atto non solo la propria perizia nell'arte di forgiare e di lavorare i metalli utilizzando crogioli, trafile, pinze, saldatori, piccole incudini e trapani, ma ben conoscevano anche l'anatomia e la patologia dell'apparato masticatorio, le leggi fondamentali dell'ortodonzia, le indicazioni e le controindicazioni dei vari tipi di protesi: queste dovevano adattarsi perfettamente alla parte, e rispondere pienamente alle esigenze della masticazione.

Tali protesi venivano costruite per sostituire i denti mancanti o per fissare denti vacillanti (ponti).

Per quanto riguarda i denti artificiali, questi erano per lo più rappresentati da denti umani (sia del paziente stesso che di un altro soggetto vivente), ma venivano anche utilizzati denti di bue o di vitello. Se si considera l'alto rispetto che gli Etruschi nutrivano per i morti, è praticamente da escludere che i denti provenissero da cadaveri.

Talora gli esperti ricorrevano ad ingegnosi artifici, che dimostrano ancora una volta quanto essi fossero padroni del proprio mestiere, e come conoscessero le leggi fondamentali dell'ortodonzia e dell'estetica orale. Al Museo nazionale di Tarquinia è conservato un dente bovino che venne applicato per sostituire tre denti incisivi: esso è solcato verticalmente in modo da simulare i denti mancanti e dare l'impressione interstiziale di soli due denti!

Anche se le "prove" di una chirurgia in Etruria non sono molto copiose, tutto lascia presumere l'esistenza di un'arte chirurgica già agli inizi della sua storia, arte professata da uomini o sacerdoti il cui preciso compito era di suturare ferite, arrestare emorragie, immobilizzare fratture, ridurre lussazioni.

Gli scarsi strumenti sicuramente chirurgici o presunti tali (coltelli, pinze, sonde, specilli, cauteri) reperiti negli scavi e nelle sepolture poco si differenziano da quelli che furono successivamente usati dai Romani; né è da escludere che alcuni di essi provenissero dalla Grecia.

Molto più copiosi sono invece le notizie riguardanti una pratica che faceva parte integrante dell' "etrusca disciplina", l'aruspicina, per molti versi non dissimile da quella assiro-babilonese. Essa implicava una grande perizia da parte degli Etruschi nel selezionare gli animali e nell'esciderne i visceri e il fegato prima di ispezionarli. La parola "aruspice" deriva dal termine (forse assiro) har, che vuol dire fegato.

Non sono pochi i bassorilievi, i vasi e gli specchi ornamentali che ci mostrano gli aruspici impegnati in questa pratica. Ma il reperto più famoso, divenuto quasi antonomasia di aruspicina in Etruria, è il "fegato di Piacenza", trovato per caso nel 1877 da un contadino in una campagna del comune di Gossolengo, a una decina di km da Piacenza.

Si tratta di un modello di fegato di ovino delle dimensioni 126 x 76 x 60 mm dotato di una superficie pianeggiante sulla quale emergono tre protuberanze e sono incise ben quaranta iscrizioni, e di una parte convessa sulla quale spiccano due sole parole "sole" e "luna".

Oggi lo si considera come un "vademecum" del II secolo a.C. che l'aruspice portava con sé e al quale si riferiva al momento del bisogno. Per di più poteva servire come modello per le lezioni ai discepoli.

Confrontando il fegato dell'animale sacrificato con il modello di bronzo, l'aruspice poteva mettere in relazione eventuali anomalie riscontrate in precisi punti del viscere con le divinità relative a quei settori interessati al fenomeno e, di conseguenza, trarre auspici per il futuro.

Molto diffusa era in Etruria anche l'osservazione delle viscere negli animali sacrificati, il che lascia presumere una buona conoscenza dell'anatomia da parte di quei medici, i quali -proprio come i "colleghi" di altre civiltà- la trasferivano tuttavia automaticamente all'essere umano.